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STRUMENTI

Copiatura e miniatura dei fogli di un manoscritto.
Dal Roman de la Rose (1330 circa).


LA REALIZZAZIONE DEI MANOSCRITTI

I primi manoscritti miniati e illustrati datano al V sec. D.C., tuttavia libri e rotoli venivano decorati anche in epoca classica. Infatti, è plausibile che i “rotoli di “papiro” fossero decorati nell’Antico Egitto e in Grecia; inoltre, autori latini quali Marrone e Marziale, riferiscono dell’esistenza di ritratti degli autori all’interno dei manoscritti Romani. La grande diffusione della pratica di illustrare i manoscritti è comunque una conseguenza dell’invenzione del libro vero e proprio, ovvero, il passaggio dal rotolo di papiro ai codici consistenti in figli di pergamena rilegati insieme.
Questo cambiamento prese piede in un periodo compreso fra il II e il IV secolo d.C. L’arte di illustrare i manoscritti rimase un’arte fiorente almeno fino al XVI secolo quando i codici manoscritti riccamente decorati vennero lentamente sostituiti dai libri stampati.


Iniziale istoriata “P” di Prevaricatus
dalla Bibbia (1300c.).

COSTRUZIONE DI UN LIBRO


La realizzazione del libro medievale, era la somma di un complesso insieme di operazioni che portavano alla creazione di vere opere d’arte per ricchezza sia di contenuti, che potevano essere scritti, istoriati, miniati, dorati, che per la copertura esterna (copertina che poteva essere in legno foderato di pelle a sua volta incisa e dorata con anche incastonate pietre preziose). Era considerato uno “status simbol” del proprietario e veniva trasmesso anche per via ereditaria. Alcuni di questi manoscritti, specie se contenevano miniature, potevano essere divisi nei fogli e commercializzati separatamente per diminuirne il valore complessivo o, se troppo usurati , le pagine salvate, essere inserite in altri codici.

Costruzione di un libro
DALL’ALTO IN SENSO ORARIO

  • La produzione della copertina era una fase a parte che richiedeva l’intervento di più persone.

  • La pergamena veniva tesa sul un telaio di legno e raschiata con un  coltello curvo.

  • Essiccata e pulita veniva tagliata della giusta misura.

  • Insegnare con i manoscritti era un aspetto chiave della vita monastica.

  • Venivano fatti dei buchi nella pergamena, come guida per le spaziature.

  • I fori erano uniti da linee incise sulla carta tra le quali l’amanuense avrebbe scritto il testo.

  • I fogli manoscritti venivano ordinati e poi cuciti.

  • Il libro viene legato e l’amanuense si prepara ad eventuali annotazioni.

  • Il manoscritto finito conferiva più autorità alle prediche dei monaci.

L’amanuense controlla che la punta della penna d’oca sia ben appuntita.


Immagine tratta da un manoscritto del XII secolo.

GLI STRUMENTI

PERGAMENA

Un materiale per scrivere che deriva il suo nome dalla città greca di Pergamo (oggi in Turchia) fra i primi centri di produzione. Il termine viene genericamente utilizzato per denotare la pelle animale appositamente preparata per divenire supporto per la scrittura, anche se sarebbe più corretto riservare il suddetto termine soltanto per la pelle degli ovini ed usare vello per quella dei bovini. Il vello uterino, pelle di bovino giovane o nato morto, si caratterizza per una taglia assai ridotta ed una superficie bianca e molto fine, tuttavia era poco comune. Per produrre la pergamena o il vello, la pelle animale veniva messa in un bagno di calce viva per essere ripulita dalla carne, poi stirata su un telaio e scorticata con una mezzaluna quando era ancora umida. In seguito, poteva essere trattata con la pomice, sbiancata con l’uso di sostanze quali il gesso e tagliata a pezzi. Le maggiori differenze nella qualità della pergamena sembra possano imputarsi in gran parte alle differenze  nei processi produttivi che alle diversità delle pelli utilizzate. La pergamena soppiantò il papiro come mezzo di scrittura nel corso del IV secolo, anche se era nota già in precedenza. La stessa pergamena subì il medesimo destino essendo rimpiazzata largamente dalla carta nel corso del XVI secolo(in conseguenza dello sviluppo della stampa) pur rimanendo in uso per certi e particolari libri di lusso.


Una rivendita di pergamena così come illustrata in una cronaca italiana del sec.XI. Mentre un uomo sta riducendo una pelle in fogli rettangolari, un altro sta trattando altri fogli con la calce per renderli adatti alla scrittura. La merce stipata sugli scaffali comprende tanto rotoli quanto pacchi di fogli già pronti.

FABBRICAZIONE DELLA PERGAMENA

La PERGAMENA è un materiale ottenuto attraverso la lavorazione della pelle degli animali. Il processo che nel medioevo trasformava la pelliccia di un animale in un materiale bianco e pulito pronto per essere utilizzato come supporto per scrivere un manoscritto era affidato ad uno specialista, il PERVCAMENARIUS, e cioè il produttore di pergamena. Nel Tardo Medioevo, i produttori di pergamena avevano una posizione affermata fra gli artigiani ed i commercianti di ogni città.

Un monaco ispeziona un foglio di pergamena che sta per acquistare da un rivenditore come rappresentato in una lettera iniziale di un manoscritto tedesco del XIII secolo. In secondo piano, si possono notare la mezzaluna ed il telaio di legno su cui è stesa la pelle di proprietà dell’artigiano.
Copenhagen, Royal Library. Ms. 4, 2o f. 183v. Tratto da Christopher De Hamel, Medieval Craftsmen. Scribes and Illuminators (London: British Museum Press, 1992), fig. 8, p. 13.

Nell’uso comune, i termini pergamena e vello sono intercambiabili. In dettaglio, però, la parola pergamena, di solito PERGAMENARIUS nel Latino medievale, deriva dal nome della città di Pergamo il cui re Eumenes, secondo quanto detto da Plinio, avrebbe inventato tale materiale nel II secolo a.C. durante un embargo commerciale sul PAPIRO. Ancora, il termine VELLUM, che ha la medesima radice della parola VITELLUM, ovvero vitello o vacca in Latino, riscontrabile anche nel Francese VEAU, indica esclusivamente il materiale per scrivere ricavato dalla pelle di vacca. Tuttavia, senza uno studio microscopico e dermatologico è praticamente impossibile discernere la provenienza specifica di una pelle già trattata. La preparazione della pergamena è un processo lento e complicato. Gli antichi manuali artigianali sottolineano come la scelta di una buona pelle sia cruciale. Durante il Medioevo, infatti, gli animali domestici soffrivano di diverse malattie punture di insetti che avrebbero potuto lasciare tracce indelebili sulla pelle dell’animale una volta scuoiato. Inoltre, il LAVORATORE DI PERGAMENA che cercava nel macello le eventuali pelli a disposizione, doveva anche tener conto del colore originario del mantello dato che questo si riflette, in seguito, sulla superficie finale della pergamena: il mantello di una vacca o di una pecora bianche tenderà a produrre una pergamena bianca, e le ombre marroni, esteticamente piacevoli, che si intravedono sulla superficie di una pergamena possono essere dovute all’uso della pelle di vacche o capre chiazzate.
Il processo di lavorazione vero e proprio procedeva nel modo seguente: in primo luogo, la pelle andava lavata in acqua fredda corrente per un giorno ed una notte, secondo una fonte, o semplicemente finche non fosse pulita, secondo un’altra. Appena la pelle comincia a marcire, i peli cadono naturalmente. Nei paesi caldi la pelle ancora fradicia poteva essere lasciata al sole per facilitare tale processo. Di solito, tuttavia, il processo di depilazione è indotto artificialmente attraverso un lavaggio in vasche di pietra o legno in una soluzione di acqua e calce che dura dai tre ai dieci giorni avendo l’accortezza di rimescolare frequentemente il liquido nel cassone con un palo di legno. Una alla volta le pelli bagnate e scivolose sono tirate fuori e stese con la parte pelosa su un telaio ligneo curvo a forma di scudo. A questo punto con l’ausilio di un coltello ricurvo con manici di legno per ogni lato, vengono grattati via i peli e viene alla luce la pelle completamente depilata, risultando rosa dove il pelo era bianco e maggiormente chiaro dove era marrone. Quando è possibile anche la superficie della cute, ovvero epidermide, viene eliminata.
QUESTA PARTE DELLA PERGAMENA, sulla quale c’era una volta il pelo, è nota come la parte corrugata della stessa. In seguito, la pelle depilata e pulita è ancora una volta sciacquata per due o tre giorni in acqua fresca per liberarla dai residui di calce. In una seconda fase del processo di lavorazione, la pelle così trattata viene finalmente trasformata in pergamena. Questo si concentra sulle operazioni di essiccaggio e stiratura della pelle, che avviene su un telaio di legno. La pelle non conciata, floscia e bagnata, a causa del suo ultimo risciacquo, viene stesa in tutta la sua lunghezza su un telaio. Questo può essere tanto di forma circolare quanto rettangolare. La pelle, tuttavia, non poteva essere appesa sul telaio mediante cucitura in quanto seccandosi si ritira e così i margini finirebbero per strapparsi (inoltre i telai che venivano in continuazione riusati sarebbero divenuti inservibili qualora fossero stati crivellati di buchi per le cuciture); perciò il LAVORATORE DELLA PERGAMENA distendeva la stessa attraverso l’uso di corde connesse a morsetti di legno regolabili. Ad intervalli di pochi centimetri l’uno dall’altro, l’artigiano metteva dei piccoli ciottoli o sassi levigati che venivano avvolti nel margine della stessa pergamena così da formare dei piccoli nodi chiusi per mezzo di una corda. L’altro capo della stessa corda veniva assicurata ai morsetti regolabili del telaio. Uno per uno questi nodi e le corde sono posizionati tutto intorno fino a che tutta la struttura assomiglia ad un trampolino verticale, mentre i morsetti regolabili vengono stretti per tirare la pelle. Tirandosi la pelle, ogni piccolo foro o fessura creatasi nel corso della depilazione e scorticamento, allargandosi, prendeva forma circolare. Infatti, non è raro incontrare proprio questo tipo di fori nelle pagine o sui margini dei manoscritti medievali. Se l’artigiano si rendeva conto in tempo della presenza di tali fessure poteva tentare di porvi rimedio cucendo i due lembi affinché il foro non si allargasse maggiormente; in qualche caso è possibile notare sulle pagine dei manoscritti dei buchi intorno ai quali si notano segni di cucitura, fatto che indica un tentativo di riparazione non andato a buon fine, essendosi la fessura riaperta sotto la pressione del tiraggio.

I buchi naturali nei fogli di pergamena utilizzati per i manoscritti sembrano essere piuttosto frequenti nella produzione editoriale monastica dal momento che gli stessi monaci non potevano permettersi (o non si curavano di avere) pergamene perfette, non danneggiatesi nelle precedenti fasi di lavorazione. Il copista doveva, dunque, scrivere tutto intorno al buco stesso, come mostrato da questa pagina probabilmente manoscritta presso l’Abbazia di Gloucestershire.
Tratto da Christopher De Hamel, Medieval Craftsmen. Scribes and Illuminators (London: British Museum Press, 1992), fig. 6, p. 12.

A questo punto la pelle è piana e gommosa ma ancora bagnata. L’artigiano all’inizio la mantiene umida gettandole sopra secchi di acqua calda. In seguito inizia a grattarla vigorosamente per mezzo di un coltello ricurvo con un manico centrale. Un coltello dritto avrebbe, infatti, un angolo di incidenza troppo acuto sulla pergamena e potrebbe quindi tagliarla. La MEZZALUNA, chiamata in latino lunellum, era lo strumento principe del LAVORATORE DI PERGAMENA con il quale viene, infatti, spesso ritratto nell’iconografia medievale; questo veniva adoperato per scorticare entrambi i lati della pergamena, particolarmente alla PARTE DELLA PELLE (interna)..
Procedendo il lavoro, l’artigiano è costantemente impegnato a tirare i morsetti regolabili e a tenerli fissi mediante martellatura. Finalmente alla pelle è consentito asciugarsi sul telaio e, nel corso di tale processo tirandosi diviene sempre più piatta. Quando è completamente secca la depilazione e la scorticatura ricominciano. A questo punto la pelle è tesa come quella di un tamburo e il rumore provocato dal coltello sulla pelle è notevole. Nei primi tempi, quando la produzione di pergamena era affidata ai soli monasteri, la pergamena era assai spessa ma, a partire dal XIII secolo era divenuta levigata e fina come un tessuto. La parte granulosa, dove un tempo erano i peli dell’animale, doveva essere ben spellata, specialmente in quest’ultimo stadio, per eliminare ogni riflesso vitreo, insoddisfacente come superficie per la scrittura. A questo punto il foglio poteva essere sciolto dal telaio. La pergamena, ormai secca, fina ed opaca, poteva così essere arrotolata per essere conservata o venduta. Probabilmente, quando gli scrivani o i librai medievali acquistavano della pelle da un LAVORATORE DI PERGAMENA, essa era proprio in questo stato, non ancora lucidata ed ammorbidita, attraverso l’uso del gesso, per essere pronta per la scrittura. I prezzi della pergamena variavano grandemente, ma i fogli venivano generalmente venduti a dozzine.
La pergamena è un materiale estremamente duraturo, molto più della semplice pelle. Può, infatti, resistere per migliaia di anni in perfette condizioni. Una pergamena di buona qualità è morbida, fina e vellutata e si piega con facilità. La parte maggiormente granulosa, dove una volta era il pelo, è di solito di colore più scuro: color crema o giallo (nel caso della pelle di pecora), o marrone per la pelle di capra.

Schema generale di un rotolo di papiro.

A. Foglio di Papiro
B. Protocollo
C. Fogli verticali di papiro
D. Fogli orizzontali di pergamena
E. Giunture
F. Bastoncini di forma rotonda

Tratto da Jean Glenisson, La Livre au Moyen Age (Brepols: Presses du CNRS, 1988), fig. 2, p. 14.

Tuttavia, non tutti i manoscritti medievali erano scritti su PERGAMENA. Il Medioevo, infatti, conservò a lungo l’uso della produzione di libri con il PAPIRO e questo fragile materiale originario dell’Egitto continuò ad essere occasionalmente utilizzato fino al VII/VIII secolo d.C. Il papiro è un materiale assai economico e specificamente adatto ad essere adoperato per la produzione di documenti nella forma di rulli; al contrario questo stesso materiale non risulta essere appropriato per la produzione di testi rilegati in forma di libri in quanto le pagine tendono a deteriorarsi quando vengono ripetutamente girate e le pieghe,. La scarsa consistenza e resistenza di questo particolare materiale ne determinarono il destino come materiale per la scrittura ed anche la forma che i codici potevano assumere: quella del rotolo.
Questo poteva variare notevolmente nelle sue dimensioni. Alcuni raggiunsero la lunghezza di 40 metri. Di solito le misure erano comprese tra i sei e i dieci metri. Il testo veniva sistemato in colonne da sinistra a destra.
Per meglio preservare i rotoli, questi venivano imballati in fodere di legno od osso con terminazioni in forma rotonda.
Il rotolo così protetto veniva poi messo in una custodia di pelle. La produzione di papiro fra il IV e VI secolo d.C. rimase un monopolio egiziano e, anche dopo la conquista araba (640 d.C.) continuò ad essere prodotto nella regione fino al X secolo. A partire dal pontificato di Gregorio I (590-604), questa industria si spostò in Sicilia dove le piantagioni di papiro sopravvissero sino al XIII secolo. La cancelleria papale continuò ad usare il papiro come mezzo di corrispondenza ufficiale fino al secolo XI. Infine, occorre ricordare che nell’attuale lingua inglese la parola “paper” che indica la carte etimologicamente deriva dalla voce papiro.

CARTA

Vi sono numerosi manoscritti medievali scritti su CARTA. Già nel XV secolo i piccoli libri economici per i preti e gli studenti erano fatti di carta più che di PERGAMENA. Ma anche le librerie degli aristocratici possedevano libri su carta. Alcuni manoscritti di carta sono sopravissuti con entrambi i fogli esterni dei FASCICOLI di pergamena, forse perché la pergamena essendo più resistente proteggeva meglio queste parti che erano maggiormente sottoposte all’usura. La carta fu un’invenzione cinese, risalente forse al II secolo e questa tecnica di produzione impiegò circa mille anni per giungere, attraverso il mondo arabo, in Occidente. A partire dal XIII secolo c’erano mulini per la produzione di carta in Spagna, Italia ed in Francia dal 1340, in Germania dal 1390 ma probabilmente, non per l’Inghilterra dove occorre attendere il tardo XV secolo. La carta era esportata dai luoghi di produzione (Cina) in tutta Europa intorno al 1400 la CARTA divenne un mezzo comune per piccoli volumi di sermoni, libri di testo economici, opuscoli popolari e così via. Non più tardi del 1480 una regola dell’Università di Cambridge prevedeva che i soli libri di pergamena fossero accessibili al prestito. La carta veniva, dunque, considerato materiale irrilevante. Fu l’invenzione della stampa negli anni cinquanta del XV secolo a trasformare il mercato ed il volume di produzione della carta tanto da abbatterne i costi e da farne, nel tardo XV secolo, il supporto per tutti i libri a parte i più lussuosi. La CARTA medievale era fatta da cenci di lino. E’ infatti maggiormente resistente e duratura della carta moderna a base di polpa di legno e gli scrivani del XV secolo si sbagliavano nel considerare scarsa la sua affidabilità.

Carta in Fabriano.

La carta di cenci veniva fatta come segue: gli stracci bianchi erano selezionati e lavati  minuziosamente in una tinozza con buchi di drenaggio e poi lasciati a fermentare per quattro o cinque giorni. In seguito, i cenci che vanno disgregandosi sono tagliati a pezzi e battuti per alcune ore in acqua corrente, lasciati macerare per una settimana e poi battuti ancora e così via per molte altre volte fino al momento in cui si trasforma in una polpa fluida. Allora viene versata in una grande tinozza. Un telaio di fili veniva immesso nella vasca e, una volta estratto, tirava su una pellicola di fibre bagnate; poi veniva scosso e liberato dalle sgocciolature e finalmente svuotato su un panno di feltro. Su di esso si poneva un altro panno di feltro e così ogni foglio umido veniva posizionato all’interno di una struttura fatta di strati di fogli di carta e di panni feltro alternati. In seguito, questa struttura multistrato veniva pressata per togliere l’acqua in eccesso ed i fogli di carta rimossi e posti ad asciugare. Una volta pronti, i fogli venivano imbozzimati attraverso l’immersione in una colla animale ottenuta dall’ebollizione di scarti di pellame. L’imbozzimatura rendeva la carta meno assorbente e le consentiva di trattenere l’INCHIOSTRO. In questo stadio i fogli potevano essere nuovamente pressati per essere resi maggiormente piani. Qualche volta, in particolare nell’Italia del nord-est (certamente sotto l’influenza araba) la carta veniva lucidata per mezzo di una pietra levigata per ottenere una superficie lucida.

Accade che il telaio lasci delle righe nei punti dove la polpa di carta era più fina e, a partire dal 1300, i produttori di carta europei iniziarono a inserire nell’intreccio del telaio dei bolli in modo che immagini divertenti o emblematiche fossero anch’esse impresse nello spessore della carta. Questi marchi erano invisibili quando il foglio era steso o piegato in un libro ma risultavano ben visibili controluce. Questo tipo di FILIGRANA divenne pian piano un mezzo per distinguere i diversi mercati e luoghi di produzione della carta. Prima che uno scriba medievale potesse iniziare a scrivere un manoscritto occorreva decidere se usare CARTA o PERGAMENA. La carta era più economica e leggera avendo anche il vantaggio di venir fornita già nel formato necessario. La pergamena, ritenuta maggiormente resistente, possedeva anche una superficie rugosa che permetteva una maggior flessibilità nell’uso della penna rispetto alla piattezza della carta. I manoscritti più belli ed elaborati erano, quindi, prodotti su pergamena, che era infatti utilizzata per il LIBRI DELLE ORE e altri libri tradizionali destinati a una lunga vita.

INCHIOSTRI

Le penne d’oca funzionavano come penne ad immersione  nel senso che un copista non poteva lavorare senza avere accanto un recipiente piano di INCHIOSTO e il calamaio;
infatti, molte rappresentazioni di san Giovanni sull’isola do Patos includono la figura di un diavolo dispettoso che da dietro un cespuglio con un gancio tenta di far sparire il calamaio del santo.

Un copista non può scrivere senza inchiostro: Le miniature concernenti S. Giovanni che mette per iscritto il Libro della Rivelazione, infatti, non di rado illustrano la leggenda del tentativo  fatto dal Diavolo di sottrarre all’Evangelista le sue penne ed il calamaio portatile così da impedirgli di terminare la stesura dell’ultimo Libro della Bibbia. Rowen, Libro delle Ore 1480 c.

Questa è una scena all’aria aperta ed il calamaio è portatile, probabilmente con una chiusura a vite ed è attaccato con una CORDA ad un astuccio oblungo per penne. Negli SCRITTOI invece l’INCHIOSTRO era contenuto in corni e, qualche volta gli scrivani sono ritratti mentre tengono fra le mani tali contenitori ma più spesso entrambe le mani erano occupate a lavorare con penna e coltelli. Gli Evangelisti dipinti nei Vangeli di epoca Carolingia mostrano che essi tenevano l’inchiostro su un  supporto separato, una sorta di porta lampada, accanto al tavolo di lavoro (una buona precauzione pensando quanto sia facile versare un calamaio).

Le raffigurazioni basso medievali presentano i corni contenenti l’inchiostro inseriti in cerchi di metallo a loro volta attaccati al margine destro del tavolo di lavoro e ve ne potevano essere da due a tre. Vi sono esempi in cui i corni con l’inchiostro sono inseriti in una serie di buchi verticali sulla superficie del tavolo e le loro punte escono fuori dal fondo dello stesso tavolo.
Abbiamo numerose ricette medievali per la fabbricazione dell’INCHIOSTRO. Vi erano due tipi di inchiostro completamente differenti. Il primo è una mistura di nerofumo e gomma, a base quindi di carbone. Il secondo è a base di noce di galla e di metallo, di solito una soluzione di acido tannico e solfato di ferro; anche questo richiede l’addizione di gomma come additivo per la consistenza più che per renderlo maggiormente adesivo. Il colore nero è il risultato di una reazione chimica. Entrambi i tipi di inchiostro erano in uso durante il medioevo. L’inchiostro di nerofumo era adoperato nell’antichità e nel mondo orientale e viene descritto in tutte le ricette medievali fino al XII secolo. Anche l’inchiostro a base di noce di galla e metallo era in uso almeno dal III secolo ma non vi sono descrizioni della sua preparazione fino al XII secolo con Teofilo. Da questo momento le ricette artigianali descrivono tali inchiostri e, probabilmente, tutti i manoscritti tardo medievali sono scritti con questo tipo di inchiostro. La ricetta è interessante ed è sorprendente apprendere che il principale ingrediente è la galla di quercia, una curiosa formazione tumorale rotonda, della misura di una piccola biglia, che cresce sui rametti e sulle foglie della quercia. Si forma quando all’interno del germoglio una vespa depone le sue uova ed una sfera soffice di colore verde pallido che si forma attorno alle larve.

Galle sul ramo di una quercia.
Il piccolo buco presente su ognuna di esse, mostra il luogo dal quale la vespa è fuoriuscita dopo aver deposto le uova.

E’ possibile trovare le NOCI DI GALLA sugli alberi di quercia, anche ai giorni nostri,benché le migliori erano ritenute quelle importate da Aleppo nel levante. Se raccolte troppo giovani le noci di galla si raggrinziscono come frutta matura ma quando la larva all’interno si sviluppa completamente in insetto, lascia il suo bozzolo vegetale attraverso un foro, la noce che resta è ricca di acido tannico e gallico. Queste vengono frantumate e lasciate in infusione con acqua piovana sotto il sole o vicino al fuoco. Alle volte vino bianco o aceto potevano essere utilizzati al posto dell’acqua piovana: Dunque, questo è il primo ingrediente di questo tipo di inchiostro. Il secondo è solfato di ferro noto anche come copparosa verde, o vitriolo verde o salmostris. Questo componente poteva essere prodotto artificialmente o trovato naturalmente come risultato dell’evaporazione dell’acqua nei terreni ferrosi. La copparosa verde, a partire dal tardo XVI secolo, veniva prodotta versando acido solforico su vecchi chiodi, filtrando il liquido così ottenuto e mischiandolo con l’alcool (ciò potrebbe spiegare l’acidità degli inchiostri post-medievali). La copparosa verde viene poi addizionata alla pozione a base di noce di galla rimescolando con un bastone di fico. La soluzione così ottenuta passa da un marrone pallido al nero. A questo punto, viene aggiunta la gomma arabica non tanto per aumentarne le capacità adesive ma per incrementarne la densità. Le PENNE D’OCA necessitano di un inchiostro viscoso mentre le penne stilografiche no. La gomma arabica è la resina dell’acacia che viene seccata, importata in Europa dall’Asia minore. L’inchiostro a base di noce di galla si scurisce ancor più quando esposto all’aria sulla pagine dei manoscritti. Viene ben assorbito dalla pergamena al contrario di quello a base di nerofumo può essere rimosso con una certa facilità; l’inchiostro a base di noce di galla è anche maggiormente lucido e splendente dell’altro che risulta più nero e granuloso.

Le raffigurazioni medievali spesso mostrano due corni contenenti inchiostro sulla destra del tavolo. Il secondo contenitore era probabilmente per l’inchiostro rosso.
Quest’ultimo era molto usato nei manoscritti medievali per titoli, sottotitoli e rubriche (da cui la parola stessa) nei manoscritti liturgici, e per i giorni marcati con lettere rosse nei CALENDARI. Le correzioni del testo erano alle volte effettuate in rosso, per sottolineare l’attenzione con la quale il testo era stato rivisto. INCHIOSTRI blu e verdi esistevano ma erano assai rari; il rosso era, dunque, il secondo colore: L’uso del colore rosso risale per lo meno al V secolo e fiorì fino al XV secolo.
Deve essere stata la diffusione della stampa, per la quale era assai difficile produrre testi a colori, ad intaccare la convinzione medievale che i libri dovessero essere esclusivamente in rosso e nero. I libri a stampa erano solo in nero ed apparivano più monotoni. Il vermiglio si otteneva con solfati di mercurio che viene trasformato in inchiostro rosso mediante frantumazione e mescola con chiara d’uovo e gomma arabica.
L’inchiostro rosso si può ottenere anche dalla scorza del brasile o verzino infusa in aceto e mischiata con gomma arabica. Occorre spiegare che questo tipo di vegetale non è originario del sud America ma, al contrario, data l’abbondanza di tale albero noto ai fabbricanti di in chiostro in queste regioni fu esso stesso a donare il nome all’area geografica.

L’originale e la copia erano posti sul tavolo inclinato l’uno accanto all’altro. Nelle miniature si vede che i manoscritti erano tenuti aperti grazie a dei pesi appesi ad ogni margine con una corda che aveva un capo ciondolante sul retro del tavolo e l’altro sulla sommità della pagina. Il manoscritto di pergamena tendeva a chiudersi se non veniva mantenuto aperto. Alcune volte i pesi sono rappresentati come all’incirca triangolari con sommità rotonde e parti inferiori estremamente allungate, avrebbe segnato esattamente il suo posto sull’originale. I copisti sedevano su sedie molto alte (giudicando dal materiale iconografico) di fronte a un tavolo inclinato.

Jean Mièlot (+1472), canonico della città di Lille e segretario di due dichi di Borgogna, notevole traduttore e copista, viene presentato in questa miniatura come il copista-studioso ideale nel suo studio colmo di manoscritti e strumenti di lavoro.

Alcune illustrazioni medievali presentano la superficie del tavolo come attaccata alla sedia, apparentemente attraverso cardini, in modo da permettere al copista di sedersi per poi rimettersi in posizione, come negli odierni seggiolini per bambini. Stando alle rappresentazioni, tuttavia, appare difficile immaginare come il copista potesse riuscire a muoversi nella sedia anche se munita di cardini. L’inclinazione era assai ripida: le PENNE D’OCA sono maggiormente funzionali quando si adopereranno con un’inclinazione ad angolo retto rispetto alla superficie dello scritto e ciò è più semplice da ottenere su di un piano inclinato. Per un moderno scrivano, inoltre non pratico, rimarrebbe difficile scrivere con un’inclinazione così ripida a causa del modo in cui la penna viene oggi tenuta che necessita il riposo della parte finale della mano e delle dita sulla superficie della pagina. Ma una penna mantenuta nel modo descritto precedentemente richiede scarsamente che la mano tocchi la superficie del foglio ed il movimento è legato al braccio più che alla mano. Per questo motivo la flessibilità consentita dall’inclinazione del tavolo era ideale. Dal momento che l’inchiostro impiega qualche momento per asciugarsi si può notare come nella pagina dei manoscritti medievali la concentrazione dello stesso inchiostro risulta maggiore nella parte inferiore delle lettere dal momento che si è seccato assecondando l’inclinazione del tavolo. Inoltre, nel momento di cominciare la copiatura, al copista veniva raccomandato dai precetti dell’Arte di passare un’ultima volta la pergamena con pomice e gesso per ammorbidirla. Ciò rimuoveva ogni grasso che poteva essersi accumulato nel maneggiare e ripiegare i fogli di pergamena e per ridurre il rischio che l’inchiostro sbavasse.
Nel momento della scrittura vera e propria lo scrivano teneva in mano un coltello. Azione universale ed importante nel medioevo. Lo scrivere, come il mangiare, era un gesto che prevedeva l’uso di entrambe le mani. Ciò significa che egli non si trovava una mano libera per poter seguire il testo originale. Il coltello, usato per appuntire la PENNA e per cancellare gli errori (velocemente prima che l’inchiostro venga assorbito), assolveva anche la funzione di stendere la pagina di pergamena, sempre troppo rugosa, e per scorrere lungo le linee man mano che il copista scriveva ogni parola.
Riordinare una pagina con l’aiuto delle dita, infatti, può essere fonte di unto e scomodo allo stesso tempo mentre il coltello permette maggior controllo e precisione.

Laurenzio, priore di Durham fra il 1149 ed il - 54, è rappresentato come copista in un manoscritto a lui contemporaneo di un suo proprio lavoro che ancora oggi si conserva a Durham, nell'atto di stirare la pagina con un coltello che tiene nella mano sinistra.


PIGMENTI


La varietà di colori a disposizione del decoratore di manoscritti medievali era sorprendentemente vasta. Il rosso, ad esempio, poteva essere a base di cinabro, solfato di mercurio, estratto fin dall’Antichità in Spagna e sul Monte Amiata, presso Siena, ed in altri posti. Il vermiglio è simile nella composizione chimica ed era prodotto attraverso il riscaldamento di mercurio misto a zolfo e poi raccogliendo e tritando gli accumuli creatisi con il vapore durante la fase di riscaldamento. Essendo una mistura assai velenosa il vecchio trucco di bottega di leccare la punta del pennello per renderla pronta all’uso era un rischio calcolato. In alternativa il rosso poteva essere fatto grazie ad estratti vegetali come il brasile o verzino. Tale pianta è già stata menzionata a proposito della produzione di inchiostri rossi. Il rosso rubino, ottenuto dalla pianta della robbia (rubia tinctorum) che cresce in Italia. Un rosso romanticamente chiamato sangue di drago viene descritto dalle enciclopedie medievali come il risultato del mescolarsi del sangue di un drago e quello di un elefante che si sono uccisi in battaglia. I botanici asseriscono che si tratta del prodotto della corteccia del PTEROCARPUS DRACO. Il blu, dopo il rosso, è il secondo colore più comune nei manoscritti medievali. Probabilmente la fonte di maggior colorante era l’azzurrite, una roccia blu ricca di rame che si trova in numerose località europee. Un altro tipo dello stesso colore, anche se maggiormente tendente al violetto, era ottenuto dai semi di un girasole, ora detto Crozophora.

Polveri


Ma il blu di maggior pregio era quello ultramarino, prodotto dai lapislazzuli, roccia tipica solamente dell’Afganistan.
Il percorso di questa pietre per raggiungere l’Europa resta difficilmente immaginabile, dal momento che essa era reperibile molto prima di Marco Polo, doveva passare da carovana a carovana, trasportato prima in borse su cammelli, poi su carri ed infine su barche, e così via prima di poter giungere nelle rivendite nordeuropee dove era venduto a carissimo prezzo. Il lapislazzuli del salterio di Winchester, del XIII secolo, infatti, venne raschiato in modo da poter essere ri-usato. L’inventario del Duca di Berry, effettuato nel 1401-3, include fra i suoi tesori di incommensurabile valore due coppe preziose contenenti blu ultramarino. Vi erano, inoltre, altri pigmenti quali il verde ottenuto dalla malachite o dal verderame, il giallo dal pietre vulcaniche o dallo zafferano, il bianco dal piombo.  Numerose erano anche le differenti tecniche utilizzate per fabbricare la tinta dei pigmenti. I diluenti si facevano a base di vescica natatoria di storione o di grasso animale prodotto attraverso l’ebollizione di pezzi di pelle. Macinare e mescolate, trovando la giusta gradazione, i colori erano prerequisiti essenziali nella fattura delle decorazioni dei manoscritti miniati.

Dall'enciclopedia di Giacomo de Palmer.
Lettera iniziale C per colore.

DORATURA

La doratura di lettere miniate, serviva per dare luminosità e preziosità agli scritti che con  fatica e laboriosità venivano prodotti.
Il termine francese che rende meglio di ogni altro l’idea è ALLUMINEUR – ILLUMINATORE -, quello che dà la luce.
Diversi sono i metodi utilizzabili per applicare l’oro alle pagine di un manoscritto e, alcune volte, queste diverse tecniche venivano usate nella realizzazione di una singola miniatura per ottenere effetti differenti. In sintesi, vi sono tre metodi basilari appropriati alla doratura dei libri. Due di questi usano foglio d’oro mentre l’altro utilizza polvere d’oro. Nel primo caso, il disegno viene schizzato su una superficie con un tipo di colla umida e, poi, il foglio di oro viene posizionato su di esso ed infine lucidato quando è secco. Questa tecnica era usata in particolare nei primi manoscritti e con la stessa è possibile ottenere un efficace effetto luminoso  come quello tipico dei primi pannelli dipinti. Nel secondo caso, viene precedentemente preparato un fondo di intonaco in modo da ottenere un risultato tridimensionale. Quando l’applicazione e la lucidatura dell’oro sono stati completati, la miniatura appare molto spessa e la sua superficie cesellata assorbe luce da più angoli. Tale tecnica è certamente la più magnifica fra le diverse metodologia della miniatura medievale e sarà descritta nei minimi dettagli più avanti. Il terso metodo consiste nell’applicare dell’INCHIOSTRO DORATO, ottenuto mescolando polvere d’oro con gomma arabica (comunemente preparato e contenuto all’interno di una conchiglia di cozza o ostrica, da cui il nome in inglese di SHELL GOLD – ORO IN CONCHIGLIA9 con la penna o il pennello. Lo stesso era detto anche patina d’oro o oro liquido. Al contrario dei fogli d’oro veniva aggiunto dopo i colori. Fu particolarmente in voga dopo la seconda metà del XV secolo e può in qualche modo assomigliare alla GLASSA DORATA stampata su certe odierne carte natalizie. E’ abbastanza curioso che tale metodo sia stato tanto comune in quanto il suo effetto può facilmente divenire barocco ed eccessivo e, inoltre, doveva essere assai più caro poiché tritare dell’oro per ottenerne polvere necessita di una maggiore quantità di materiale rispetto alla semplice applicazione di una foglia d’oro; chi ha tentato di contornare i colori con l’inchiostro dorato ha sottolineato quanto sia lungo e complicato tale metodo.

Anche la foglia d’oro non è di semplice applicazione. Una delle proprietà specifiche dell’oro è che questo può essere martellato e ridotto sempre più fino senza che esso si sbricioli. Una foglia d’oro è infinitamente più fine del più sottile dei fogli di CARTA. E’ virtualmente senza peso e spessore. Se lasciata cadere non sembra fluttuare verso il basso. Se deposta su una superficie può incresparsi o piegarsi ma può essere steso facilmente con un fiato, divenendo piano come un lenzuolo stirato.
Fino al 1200 era comparativamente poco usato eccetto per lavori particolarmente ricchi o di lusso. Tale metodo è abbastanza economico anche attualmente. Cennino Cennini, gioielliere e teorico dell’Arte italiano del XIV secolo, diceva che quando si acquista dell’oro in fogli occorre essere sicuri che il venditore sia bravo a battere l’oro, controllare l’oro stesso e vedere se la sua superficie è opaca ed increspata, come la PERGAMENA di capra, per poterlo valutare un buon affare. Entrambi, Cennini e il Modello di Gottiga, libro 5, descrivono ampiamente il modo di fabbricare l’INTONACO per preparare la base della miniatura. “Inizia con il gesso di Parigi, e mischialo con un poco di polvere di piombo bianco (meno di un terzo della quantità di gesso, secondo Cennini). La sostanza così ottenuta è molto bianca e friabile”. Il manoscritto di Gottiga riprende la medesima ricetta: “poi si vada a prendere dallo speziale del bolo armeno e lo si mescoli con il gesso fino a che questo stesso no assuma un colore rosso carne”. Il bolo armeno, così chiamato anche se proveniva da molte altre zone più vicine dell’Armenia, è un’argilla grassa che non ha altre funzioni in questo processo se non quella di fornire il colore. Al momento di applicare l’intonaco su di una pagina bianca, infatti, l’uso di una sostanza colorante rende questo composto maggiormente visibile, e, inoltre, se parte della doratura dovesse perdersi è sempre meglio vedere al di sotto una tonalità rosa-marrone che un bianco sfavillante.

58. In questa miniatura incompleta venne eseguita la doratura ma la colorazione
non fu mai completata.
La scena illustra la persecuzione dell’Anticristo.
Apocalisse di Abigdom, Inghilterra 1270-75

Ora abbiamo una sostanza a base di gesso e piombo, più o meno colorata che sia. Occorre aggiungere dello zucchero. Questo o il miele agivano come sgrassanti, ovvero eliminavano l’umidità ed è importante che il preparato resti umido il più a lungo possibile. La sostanza poteva essere seccata in piccole palline rosa ed essere conservata in questa forma. Ogni qualvolta fosse stata necessaria, poi, si poteva prendere una di queste palline e frantumarla mischiandola con dell’acqua pulita e CHIARA D’UOVO, su una superficie piana, probabilmente di pietra, fino a che non diventasse fluida e senza bolle. L’albume si otteneva raccogliendo il liquido appiccicoso che si forma sul fondo di un recipiente in cui vengono sbattute le CHIARE D’UOVO, specialmente se si aggiunge una tazza di acqua fredda. Questo è l’INTONACO, una mistura che necessita di essere girata spesso, pronta per l’uso. Veniva applicata con una penna d’oca e non con un pennello. La velocità è importante in quanto occorre passarla con tocco lieve per non danneggiare la pergamena con la punta. Il liquido viene immesso nel centro della parte da dorare e velocemente e attentamente sparsa negli angoli e in tutte le parti della pagina del manoscritto evidenziate dai contorni del bozzetto, intorno ai margini delle iniziali, sulle foglia di edera, delle aureole, punteggiato sulla quadrettatura degli sfondi e così via.
Presumibilmente il miniaturista medievale, diversamente dal copista, lavorava su un tavolo piatto piuttosto che su un ripiano inclinato dal momento che l’intonaco viene ammonticchiato e tenuto insieme dalla tensione della superficie e, in caso contrario, ovvero su un piano inclinato tenderebbe a scivolare verso il basso.
Un tempo umido e la rugiada della mattina sono ritenuti essere eventi favorevoli all’applicazione della doratura. Un leggerissimo pezzo di foglio dorato viene preso per mezzo di un finissimo pennelletto, detto punta da doratura, e lasciato cadere sul morbido cuscino per la doratura dove può essere appiattito con un  semplice soffio e tagliato con un coltello acuminato nella forma di strisciette o in altre semplici forme prima di essere ripreso con il pennelletto. Respirando pesantemente sulla pagina del manoscritto, il miniaturista mantiene un giusto tasso di umidità permettendo all’intonaco di mantenersi appiccicoso; così il foglio d’oro può venire posizionato in modo da sovrapporsi ai margini della forma  di intonaco. Come si avvicina alla pagina il foglio d’oro sembra saltare per suo conto  nella giusta posizione. Viene poi coperto immediatamente con un pezzo di seta e pressato con forza col pollice. La trama della seta si imprime così sulla superficie dell’oro ma ciò resta senza conseguenze in quanto tale effetto può venir facilmente rimosso. A questo punto il miniaturista inizia la fase di lucidatura mediante un STRUMENTO che tradizionalmente era fatto con un dente di cane montato su un manico; tuttavia Cennini riporta che il dente di leone, lupo, gatto o di qualsiasi altro carnivoro è adatto all’uopo e descrive anche come sia possibile fabbricare una strumento di lucidatura usando dell’ematite. Lo strumento per lucidare viene passato sopra e intorno ai contorni del foglio d’oro ed anche negli interstizi presso i margini dello stesso. A causa dello strofinamento, l’oro che ricopriva in abbondanza i margini del bozzetto intonacato, si stacca e cade via; queste infinitesime particelle d’oro possono essere spazzolate via o raccolte.

LA PENNA D’OCA

La familiare e tradizionale immagine del copista medievale al lavoro sul testo con la sua penna d’oca è abbastanza corretta. Gli inchiostri dell’epoca erano maggiormente densi e gelatinosi rispetto a quelli attualmente in commercio ma, mentre, abbiamo numerose ricette medievali per la fabbricazione degli inchiostri mancano assolutamente istruzioni per la produzione delle penne. Ogni letterato doveva quindi essere in grado di prepararsi da solo  le proprie penne  e non vi era così necessità alcuna di descriverne la preparazione. La lavorazione delle penne d’oca per ottenere dei pennini doveva essere un’attività talmente ovvia e famigliare per tutti gli intellettuali, dall’Antico Egitto fino all’Inghilterra del XIX secolo, da non meritare nessuna menzione. Le piume migliori si ricavavano dalle remiganti di oca o cigno. E’ stato sostenuto qualche volta che le grafie minute venissero realizzate mediante l’uso di piume di corvo o cornacchia. Ciò sarebbe anche potuto essere possibile però occorre considerare la difficoltà di maneggiare una penna tanto piccola, in special modo quando si scrivesse una Bibbia di mille pagine, e le grafie minute, in fin dei conti, si sarebbero potute ottenere con una penna grande la cui punta fosse più finemente tagliata. I tacchini producono le penne migliori ma erano naturalmente sconosciuti all’Europa medievale.
Per un copista destrimane la PENNA maggiormente confortevole per lui doveva possedere una curva naturale sulla destra. Doveva quindi provenire dall’ala sinistra dell’uccello. Innanzi tutto, la punta finale veniva pulita e la maggior parte della peluria eliminata ed, infatti, le rappresentazioni medievali degli scrivani mostrano soltanto il fusto bianco ricurvo. Le piume degli uccelli appena strappate o quelle trovate sulle spiagge sono troppo flessibili e devono, quindi, essere rese più dure Per far ciò queste potevano essere o lasciate a seccarsi per qualche mese o bagnate in acqua ed in seguito spente in vaschette piene di sabbia incandescente per qualche minuto. A questo punto la grassa pellicola esterna al fusto ed il midollo interno ad esso possono essere facilmente eliminati e ciò che resta è un semplice tubo trasparente e vuoto. La punta viene affilata da entrambi i lati mediante un  corto coltello affilato – coltello da penna – nella forma di pennino. Poi viene ammorbidita fra le mani (con un movimento simile a quello che si fa per pelare le patate) e una piccola fessura viene aperta al centro del pennino. Infine, tenendo la penna col pennino fermamente appoggiato su una superficie, il copista taglia la parte esterna del pennino rimuovendo una porzione di circa un millimetro per produrre un taglio squadrato e pulito. Il copista medievale sicuramente preparava la sua PENNA abbastanza velocemente e senza grandi sforzi. Il taglio finale del pennino doveva essere ripetuto più volte nel corso della stesura di un manoscritto dal momento che la fessura sulla punta tendeva ad allargarsi a causa dell’uso.
Giovanni di Tilbury, uno degli studiosi facenti parte del circolo di Thomas Becket nel XII secolo, descrive come un impiegato sotto dettatura aveva bisogno di affilare il suo pennino così spesso che egli teneva fra sessanta e cento penne d’oca già pronte. Ciò implica che un normale copista poteva affilare il suo pennino almeno sessanta volte nel corso di una giornata di lavoro.
Le rappresentazioni medievali dei copisti sono assai comuni sia nella forma di ritratti dell’autore all’inizio del testo, tanto come parte della classica iconografia relativa agli Evangelisti e ai Padri della Chiesa rappresentati mentre studiano. Così vi sono immagini di uomini con penne da tutti i periodi del Medioevo.
In particolare nei LIBRI DELLE ORE, che spesso aprono la sezione delle Sequenze dei Vangeli con la miniatura di San Giovanni che scrive sull’isola di Patos, lo stesso santo viene rappresentato mentre guarda la sua penna, la affila (tenendo la punta verso il corpo e non verso l’esterno come si usa nel temperare le matite), mentre la scortica con un coltello, scrivendo, ponendola dietro il proprio orecchio; così il ha il quadro di tutte le attività più familiari per il trascrittore.

S. Marco ritratto in un Libro delle Ore francese di epoca rinascimentale come uno scrivano che ha appena affilato la punta della sua penna e, dopo averne ricontrollato l'efficienza, si appresta ad intingerla nell'inchiostro.


IL CALAMO


Unitamente alla penna d’oca è uno degli strumenti più antichi utilizzati per uso scrittorio. Ricavato da una canna di giunco comune vuota all’interno, è stato per secoli usato nelle calligrafie più espressive.
Possiamo a ragione pensarlo come all’antenato dei nostri attuali pennini in metallo. La punta, ricavata con un coltellino, poteva essere a taglio DIRITTO o taglio INCLINATO, a seconda della calligrafia da rappresentare.
Un calamo DIRITTO, ha una punta a taglio obliquo (circa 70°) rispetto alla cannuccia, adatta, ad esempio per scritture tipo Semionciale.
Un calamo INCLINATO, ha una punta ad angolo retto rispetto alla cannuccia, adatta per scritture come ad esempio la Maiuscola Carolina.

Penne d’oca e calamo

RIGARE E TRACCIARE LINEE


Le linee venivano tracciate sulle pagine dei manoscritti medievali come una giuda per lo scritto. Gli scolari di oggi hanno linee tracciate per guidare la loro scrittura manuale ed infatti i loro libri di esercizi e libri mastri sono stampati già con queste linee guida. Ora, tuttavia, si considera lo scrivere lettere formali su CARTA segnata poco serio, come se fosse disdicevole necessitare delle linee per guidare la propria scrittura. Nel corso del Medioevo la situazione era praticamente opposta. Più il libro era di valore, meglio RIGARE E TRACCIARE LINEE veniva elaborato. I manoscritti privi di questo sistema di riferimento (e ne esistevano) erano le più economiche e brutte trascrizioni fatte in casa. La maggior parte degli splendidi manoscritti miniati possedevano ampie griglie di linee guida per la scrittura. Quando venne introdotta la stampa, ed i primi acquirenti si aspettavano che i libri assomigliassero ai vecchi manoscritti, i primi volumi stampati usavano riportare delle false linee guida sotto ogni riga proprio perché senza di esse la scrittura appariva nuda. Vi sono esempi di questo modo di fare fino al XVII secolo. Le linee tracciate su un manoscritto medievale erano direttamente proporzionali alla tipologia di testo che doveva esservi scritto. Lo scrivano poteva o RIGARE E TRACCIARE LINEE per suo conto o scegliere fogli già segnati adatti alla disposizione del testo prescelto.

Immagine di S. Matteo, tratta dai Vangeli di Dinant del XII secolo, che mostra l’Evangelista nell’atto di tracciare le righe su di un manoscritto seguendo le linee lungo una doppia pagina.

Esiste una fonte del IX secolo che fornisce istruzioni matematiche per disporre il testo sulla pagina. Supponendo, riporta la nostra fonte, che la pagina sia composta da cinque unità in altezza e quattro in larghezza, l’altezza dello spazio per scrivere dovrebbe essere pari a quattro di queste unità; i margini interni e bassi dovrebbero essere tre volte più larghi dei margini esterni e dello spazio fra le colonne (nel caso di un libro a colonne) e un terzo più largo del margine superiore. Le linee dovrebbero essere spaziate, conclude la nostra fonte, in accordo con la grandezza dei caratteri. Tuttavia, resta difficile misurare la pagina secondo i dettami di questa fonte. E’, infatti, difficoltoso capire quanto un dato manoscritto abbia seguito una determinata regola proporzionale in quanto i margini esterni sono stati più volte tagliati nel corso delle successive rilegature. Comunque, in un manoscritto ben fatto l’autore sapeva che l’altezza dello scritto doveva essere uguale alla larghezza della pagina. Fino al XII secolo la maggior parte dei manoscritti venivano segnati con un PUNTERUOLO, attraverso l’utilizzo di stili o del retro dei coltelli. Gli scrivani usavano RIGARE E TRACCIARE LINEE in modo assai deciso e, spesso, provocando per sbaglio buchi nella pergamena. Intorno all’inizio del XII secolo si riscontrano le prime segnature praticate con qualcosa che assomiglia alla traccia di una matita: potrebbe essere stata grafite ma più probabilmente si trattava di piombo o addirittura argento. Nel corso del XIII e XIV secolo esistevano probabilmente fabbricanti di PIOMBINI che venivano fabbricati proprio per  RIGAR E TRACCIAR LINEE sui manoscritti. A partire poi dal XIII secolo, in concorrenza con lo stilo, alle volte all’interno di uno stesso manoscritto, le linee potevano anche essere tracciate anche con penna e inchiostro. Si possono, infatti, riscontrare linee in inchiostri marroni, rossi, verdi o porpora e, qualche volta, l’uso combinato di tutti questi in modo che lo scritto acquistasse una vivace apparenza. Molto frequentemente le righe che demarcano il blocco del testo proseguono fino al termine della pagina e possono essere doppie o triple in spessore. Allo stesso modo, le linee orizzontali che guidano lo scritto possono arrivare fino al margine stesso o per meglio specificare, spesso si allungano fino al margine estremo della pagina la prima e l’ultima riga, o la prima, la terza e la terzultima e l’ultima. Dunque, anche se è molto interessante notare come nei manoscritti è avvenuto il RIGARE E TRACCIARE LINEE, risulta complesso definire una regola generale.
RIGARE E TRACCIARE LINEE prima di cominciare a scrivere era un lavoro lungo a noioso. Diversi strumenti erano utilizzati per velocizzare tale operazione . Il metodo più comune era quello di prendere le misure sulla prima pagina di un fascicolo, o sulla prima e sull’ultima, mantenendo il fascicolo aperto. E seguire una riga retta fino al margine estremo della pagina stessa e qui, proprio sull’estremità, marcare un punto attraverso l’intero pacco di fogli mediante una forte PUNZONATURA. I punti così lasciati erano visibili su tutti i fogli e, semplicemente unendoli al margine interno della pagina attraverso la composizione di linee rette, si poteva replicare per l’intero fascicolo il medesimo modello di guida alla scrittura. Qualche volta questi punti venivano tracciati con coltelli tanto che si ritrovano buchi triangolari. Di solito, dovevano essere fatti con un punteruolo da carpentiere, ovvero col manico di legno. La PUNZONATURA non è sempre evidente dato che spesso viene obliterata dalla RILEGATURA. Se risultano visibili anche sui margini interni oltre che sugli esterni, ciò è dovuto al fatto  che il RIGARE E TRACIARE LINEE è avvenuto mentre i QUADERNI venivano piegati in forma di pagine. Occasionalmente si può notare (specie se avvertiti) come quasi ogni otto righe un buco risulti essere piegato o eccessivamente largo. Se ciò dimostra essere un fenomeno regolare in diversi fascicoli, allora si ha la prova che la PUNZONATURA è stata fatta utilizzando una sorta di corona dentata e che uno dei denti finendo fuori allineamento ha riprodotto lo stesso difetto su tutte le pagine. Nel corso del Tardo Medioevo, linee multiple tracciate per guidare la disposizione del testo potevano venir marcate mediante l’uso di diverse penne legate insieme, come nel caso del rostro utilizzato per realizzare i pentagrammi. Se per caso queste penne subivano delle scosse o tremavano leggermente nel corso del loro tracciato lungo la pagina, il risultato della vibrazione viene ad essere segnato esattamente nel medesimo punto in diverse linee simultaneamente, rappresentando, quindi, un altro importane indice nella ricostruzione della storia di un manoscritto.
Nel corso del XV secolo, stando a quanto è stato possibile ricostruire, ed in particolare in Italia nord orientale, veniva adoperato uno strumento specifico, la riga o righello. Questo metodo risulta particolarmente evidente nella fattura di libri orientali ed ebraici. Una tavola di legno veniva forata ed abilmente legata alla pagina da tracciare attraverso spaghi in modo che ne risultasse un’intelaiatura esattamente corrispondente a quella da riportare nella pagina
Ancora una volta, tuttavia, appare difficile, quando si controlli un manoscritto, comprendere se il righello fosse stato utilizzato o meno. Comunque si immagini come gli spaghi si debbano intersecare quando si incrociano ad angolo retto. Devono essere cuciti uno sopra l’altro o inseriti attraverso il legno in modo da riuscire dalla parte opposta rispetto al filo che lo incrocia. Ciò si può osservare nei manoscritti in cui nessuna linea si incrocia con un’altra.; le righe si interrompono improvvisamente e ricominciano qualche millimetro più in la sull’altro lato rispetto all’incrocio. Nel caso in cui il RIGARE venga effettuato mediante uno stilo, la traccia risulta semplicemente delineata da una parte all’altra senza alcuna soluzione di discontinuità. Durante l’Alto Medioevo gli scrivani senza dubbio preparavo molte delle diverse fasi di preparazione della pagina pergamena per loro conto. La produzione curtense tipica dei monasteri lasciava infatti poco spazio al lavoro di équipe o alla elaborazione con artigiani specializzati. La stessa pergamena era probabilmente un sottoprodotto delle cucine monastiche, e la carta era sconosciuta. Ma certamente a partire dal XIV secolo, era possibile trovare in commercio fascicoli di pergamena già pronti per la scrittura. Il TRACCIARE proseguiva anche sotto la miniatura e sul bianco. Per molti copisti, dunque, il lavoro scritturale iniziava facendo uso di fascicoli in bianco di pergamena o di carta già piegati e con il RIGARE E TRACCIARE LINEE completo.

Uno stilo medievale. Fatto di osso con punte metalliche probabilmente del tipo usato per segnare le righe di guida per la scrittura nei manoscritti fino al XII secolo. Sotto  una barra di piombo o piombino adatta a tracciare le righe nei manoscritti gotici.
Un suo esempio inglese che porta impresso il nome del suo proprietario Rogerio, potrebbe essere stato fuso nel XIII secolo.

A destra, Pagina di un Libro delle Ore francese del XV secolo con le righe tracciate in preparazione per la scrittura.

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